Goatmoon – “What Once Was… Shall Be Again” (2023)

Artist: Goatmoon
Title: What Once Was… Shall Be Again
Label: Werewolf Records
Year: 2023
Genre: Folk/Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Intro / Snakes Above, Dragon Below”
2. “Raging With The Lion’s Blood”
3. “Breastfed By Reptiles”
4. “Flying On Torn Angelwings”
5. “Rodent Throne”
6. “What Once Was…”
7. “Trinity”
8. “Protector Of The North”

“Who among you forged the strongest of iron?”

Imponenti aquile, corvi ed avvoltoi dal color della pece, stagliandosi tutti contro la luce di una luna pallida e dalle corna caprine, anneriscono il cielo che come un manto di nuvole verdastre e cremisi in lotta cromatica primordiale adombra di tetra oscurità un rimasuglio di civilizzazione solo parzialmente ignara di essere già in rovina. Trombe squillano ardenti nella notte che presto verrà completamente inghiottita dalle fiamme, timpani risuonano in lingue incitanti al caos in mezzo alle nubi di caligine e una frase riecheggia nell’etere riempiendolo, inquietante e speranzosa, a metà tra la promessa e la minaccia: quel che un tempo fu, sarà di nuovo. Un’imminenza, una prossimità di scontro pericolosa, anche visiva, che i Goatmoon sfruttano come abili demiurghi e condensano davvero a tutto tondo trasmutandola in un pandemonio nichilista a sette note, facendola propria senza particolari sforzi nel legittimo successore dello “Stella Polaris” di cui sono oggi inverti i colori e in un certo senso anche gli obiettivi.

Il logo della band

Rullar secco di tamburi e squilli di fanfare annunciano dunque con un tono più solenne e marziale che mai di una legione dai Mille Laghi pronta alla grande battaglia con ogni mezzo: e in effetti i quattro finlandesi capeggiati dal sempre sopra le righe BlackGoat Gravedesecrator, corazzati e sgangherati all’inverosimile, tornano all’imperscrutabile e roboante materia Black Metal che sa di casa dopo l’esperimento solitario “Silver Serpent” (2021) come veri dardi fulminanti, esiziali e ferini quanto forse non si erano ancora sentiti su un disco registrato in studio, con un simile grado di coinvolgimento e puro talento compositivo. Non è pertanto né nella maniera più assoluta un bando alla vibrante e notevolissima evoluzione intercorsa dallo spartiacque “Finnish Steel Storm” e costantemente proseguita in “Varjot” e “Tahdon Riemuvoitto”, “Voitto Tai Valhalla” come lungo “Stella Polaris”, quello che propone musicalmente “What Once Was… Shall Be Again”, quanto più evidentemente una fresca e galvanizzante presa di posizione e reazione nei confronti del probabile eccesso melodico di più recenti episodi come accaduto nelle onestamente trascurabili “Sonderkommando Nord” e “Palavien Ali-Ihmisten Löyhkä” del 2017. Come a volerci ricordare -e soprattutto, v’è certezza, ricordarsi- che i Goatmoon sono piuttosto quelli dove la melodia è assassina perché serpeggia e non prende le redini oscurando il resto, quelli di “Overlord” e “Conqueror” quando non rallentano per spezzare colli o ammaliare con la perizia atmosferica di “Way Of The Holocaust Winds”: quelli dell’importanza dell’assalto armato fatto di riff gustosi quanto taglientissimi, di un pestaggio al drum-kit eseguito in piena regola, di urla belluine condite dal bagaglio folkloristico popolare o magari da quel pizzico di grandeur sinfonico novantiano, che tornano con nostalgia furente alla ribalta dell’economia complessiva molto meglio che nell’immediatamente precedente prova di registrazione bipenne “Bestial Ophera”“Emerald Hellhound Howling Holocaust Dawn” (ci si riferisce chiaramente al corposo split-album condiviso l’anno scorso con i Thy Serpent e i Wolfnacht). Arrabbiati, misantropici e oscuri come non mai, i Nostri offrono quindi -non soltanto semanticamente- un inchino a ciò che fu prima di loro, riuscendo a traghettarlo con enorme abilità nel tempo presente perché in un doppio sforzo lo fanno esaltandone l’unicità (quella propria, come quella del genere) e ballando esperti e capaci in quel purgatorio limbico tra sempre diverso e sempre uguale; tra esplorazione e testardaggine deliziosamente anacronistica.

La band

Barbarico nonostante il grande quantitativo di melodia che spinge le canzoni i movimenti d’ascendenza costante verso l’alto: questo forse è infatti uno dei meriti più grandi dei Goatmoon di “What Once Was…”, riuscire a suonare bestiali, bastardi e ferocissimi continuando a realizzare canzoni sempre veicolate da ultimo con l’enorme gusto melodico che li contraddistingue fin dal cruciale capitolo del 2007. Dove tuttavia “Stella Polaris” in questo senso eccede in pulizia e smaliziatezza (non tanto in generale, quanto più nel dilungarsi sterile di episodi non esattamente memorabili come i poc’anzi citati, soprattutto se confrontati con l’attitudine all killer – no filler dei due album predecessori), il nuovo disco rende la tormenta di neve felicemente sperimentata nella title-track anno 2017 o nella già nominata bordata “Overlord” ancora più brutale perché oggi veicolata con il fuoco di una ingegneria di suono dalla minore cura, e al contempo ancor più cesellato compositivamente al fine di esaltarne tutta la febbrile tenacia fatta di ferri dal filo spuntato e grezza pacca micidiale.
Anche la presenza del nome tutelare nazionale di Sami Tenetz nell’organico (alla sua prima prova in studio con la band) si fa d’altro canto sentire con risultati d’eccellenza: con un riff grondante buio e odio come quello portante nella velocizzazione iniziale di “Snakes Above, Dragon Below” alle porte dei suoi tre minuti scoccati, e soprattutto con le trame armoniche che nei rallentamenti ipnotici assorbono l’ammaliante magnetismo di quelle tele aracnidee d’ipnotismo e rifrazioni di un gusto à la “Forests Of Witchery” (in “Flying On Torn Angelwings” sull’aumento e poi abbassamento atmosferico dei bpm, o “What Once Was…”, esempi forse principi). Non è dunque vero né genuinamente possibile, già così, affermare che i Goatmoon giochino al sicuro, né che di mero come-back dal peculiare sopore (per così definirlo) Dungeon-Synth, o ancora che propongano il proverbiale same-old, perché le novità inaspettate abbondano anche solo nel modo in cui elementi potenzialmente familiari vengono riesercitati e soprattutto tutti portati oltre, avanti ancora una volta con coraggio in termini di maturazione e taglientezza in fase di scrittura, pur asciugandola e per molti versi cauterizzandola: ricca, prepotente ed esplosiva dall’interno, eppure mai propensa nella sua opulenza d’arrangiamento (si pensi al terzo ma anche già al secondo brano, dove le chitarre acustiche contrappuntano i flauti nel momento più tirato prima di un assolo dal sapore ottantiano e dell’emergere del basso a ritagliarsi il suo pezzo di palcoscenico, giusto innanzi al ritorno solistico delle sei corde); mai prona a strafare per il mero gusto sciapo e ingannevole di colpire in superficie.
Non è insomma il divertimento o l’ascolto distratto, quello veloce ed evanescente -nonostante una sicura e certa semplicità di assimilazione dovuta più che altro ad un gusto melodico-creativo che ha pochi pari nel suo genere (l’irresistibile quanto animalesca e poi ancora splendente “Breastfed By Reptiles”; per non parlare dei cori trascinanti di “Protector Of The North” e l’assolo Heavy Metal che li segue portando disco e brano a conclusione)-, a regalare un album per molti versi anche più violento, complesso e lungo (in effetti proprio il più duraturo in termini di timing e completo in fatto di soluzioni e varietà dal non casualmente fino ad oggi apice “Voitto Tai Valhalla” del 2014): ma sono, in un riuscitissimo gioco di paradossi stilistici, nella schiettezza casinara, l’intuitiva naturalezza creativa e la visione cristallina di modi e finalità i paradigmi grazie ai quali gli otto ricchi brani inclusi nel nuovo disco del quartetto (vale a dire dell’ormai assodato nucleo inventivo, accompagnato dal comunque solito Skratt di fama “Haudankylmyyden Mailla” agli strumenti tradizionali, principalmente fiati, e l’M. Uttermark invece new entry alle più importanti tastiere) scorrono come vento impetuoso, sicuramente poggiandosi su solidissime basi che non vengono scalfite o inutilmente ritentate da zero -per quanto riguarda almeno l’immediata riconoscibilità in un panorama finlandese troppo spesso altrimenti uguale a sé stesso- bensì reinventate sempre nuove nell’ispirazione che le precedenti conquiste ancora fanno scorrere nelle vene.
Tutto il discorso, come a voler riassumere in un punto d’arrivo quanto imparato in una ventina d’anni di prove e controprove e senza fermarsi nel farlo, si condensa in una fortissima premura espressiva: un vero e proprio istinto sfrenato e riversato in tempi, sferzate e in una rapidità di movimento che più che mera prontezza suona come la perspicacia ancora incontaminata del debuttante alle prime armi; eppure, sempre devastantemente armata anche di quel preciso sesto senso, di quel fiuto e quel bagaglio d’intuizione compositiva che funziona quasi a presentimento in una settima -quando non ottava- prova su full-length avente tutta la freschezza e la spontanea inventiva di un disco di debutto, sebbene deliziosamente privata di tutti i difetti e le mancanze fisiologiche che normalmente ne deriverebbero. Tra sporcizia Rock ‘N’ Roll, balordaggine cresta-munita flirtante con le caoticità Punk, la virulenza RAC (le zampate di “Raging With The Lion’s Blood”) e chiodi arrugginiti Oi! (“Protector Of The North”), con l’ancestralità aedica folkloristica e tutta la ferinità verbale e fisica di cui è capace in mille forme e modi il Black Metal, dei Goatmoon più trionfali, in un certo senso sregolatamente marziali e dai toni in molti frangenti più oscuri, antichi e solenni che mai prima d’ora continuano pertanto a cambiare pelle rimanendo fedelissimi a loro stessi in un disco che fin dal titolo è un vero programma – nella riflessione tra la pura inconfondibilità già esplicata (ma per amor di esemplificazione: title-track e closer, che potrebbero uscire da “Voitto Tai Valhalla”, come l’arrembante “Rodent Throne” nel suo passaggio in minore invece da “Finnish Steel Storm”) e la necessità di esplorazione e continua conquista (l’inedito approccio sinfonico-atmosferico d’antan, accomunabile in “Trinity” e “Flying On Torn Angelwings”) – tra l’omaggio sincero alla tradizione contro le armate della luce e lo sputo anarchico su qualunque bandiera al mondo.

Lontano dall’essere un semplice riassunto benché sicuramente sia l’amalgama perfetto di quanto detto finora e di molto altro ancora, brillante del resto d’ispirazione e dotato di un carattere tutto suo, non è difficile riscontrare quindi nell’ufficialmente sesto (o settimo, come la si preferisce) full-length dei Goatmoon il migliore dell’intera discografia dei protettori del proprio personale nord: un Septentrion sicuramente mitico, possibilmente anche fantastico, magari direttamente inesistente, accademicamente non v’è dubbio – e ciononostante sempre puro, inadulterato, cristallizzato come ghiaccio eterno in musica simile e con lo sguardo fieramente rivolto verso il pantheon delle proprie divinità del buio, dell’anti-umano in toto, d’incantesimi saturnini e di colline sui cui pendii e affacciati ai cui specchi d’acqua gli infami templi monoteisti cadono in meritata rovina. Tempo quindi di rimettersi la cotta di maglia, di allungare gli artigli verso la più vicina lama, di alzare gli stendardi del proprio individualismo e di fare rumore, d’incutere timore e di vincere: perché quel che in sostanza un disco dell’ammutolente grandezza di “What Once Was… Shall Be Again” fa con una schiettezza disarmante è vincere, conquistare e trionfare nel perpetuo nome dell’avverso, hooligan senza squadra incurante di qualunque fratellanza, panorama, amicizia, inimicizia, umanità e scena, sotto ogni possibile punto di vista.

Warriors from beyond against those of the cross […]
To hunt human blood in the kingdom of trees,
We shall drink it for a thousand winters…

Matteo “Theo” Damiani

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